Pubblicato nel ’25 a puntate, in versione definitiva l’anno dopo, ma iniziato nel decennio precedente, Uno, nessuno e centomila , l’ultimo romanzo di Luigi Pirandello, è la summa del suo pensiero, della sua sterminata riflessione sull’Essere e sull’Apparire, sulla Società e l’Individuo, sulla Natura e la Forma, che approda sul palcoscenico del
Teatro Menotti, dal 24 al 29 gennaio, con la regia di Antonello Capodici e l’interpretazione di Pippo Pattavina e Marianella Bargilli.
L’Autore stesso, in una lettera autobiografica, lo definisce come il romanzo più amaro di tutti,
profondamente umoristico, di scomposizione della vita . Attualissimo, nella descrizione della
perdita di senso che l’Uomo contemporaneo subisce a fronte del sovrabbondare dei macrosistemi
sociali, che finiscono con l’annullarlo, inglobandolo: dallo Stato alla Famiglia, dall’istituto del
Matrimonio al Capitalismo, dalla Ragione alla Follia.
La scena è abbacinante. Di un bianco perfetto, luminoso, totale. Una scatola bianca, ma ad una
visione più attenta capiremo che le pareti non sono così “innocenti” come sembrano. Un’overture
dalla quale si dipanano sia la vicenda che il suo commento. Siamo in molti luoghi, cioè in nessuno.
La mente del Protagonista, certo. Ma anche una cella, una stanza d’ospedale o di manicomio. È un
luogo “non-luogo”, che però si riempie subito di visioni.
L’eleganza formale di un Maestro come Pattavina: spensierato narratore in flash-back. Furente
doppio di sé stesso nelle vicende più dolorose. In questo auto-sostituirsi, c’è persino il possibile
riscatto all’impotenza originaria, all’inanità di una esistenza precedente, inconsapevolmente
sprecata.
Una sola attrice – il ‘femminile’, mutevole, soggiogante, oscuro ed ambiguo, di
Marianella Bargilli, inquieta ed inquietante – interpreta sia la moglie Dida che la ‘quasi amante’ Maria Rosa,
provocantemente ingenua, in maniera speculare, costretta com’è nel suo disturbo ‘evitante’.
E non tragga in inganno la struttura tradizionale del romanzo d’origine: sì che ribolle delle stesse
ferocie familiari che hanno reso l’autore, l’intelligenza più acuta, crudele, definitiva di tutto il
Novecento. Pirandello, infatti, anticipando di decenni le conclusioni della ‘Gestalt’, descrive, in
realtà, dei sintomi. Scopre – fra le pieghe di un apparente ‘feuilleton’ – una vasta rete di disturbi e
nevrosi, epitome di un più ampio malessere, che contagia le società moderne come, tutt’oggi, le
intendiamo. Sono tratti di personalità istrioniche; disturbi ‘borderline’; disturbi ego-sintonici, che i
personaggi del dramma hanno tramutato in manie compulsive, in ansie da controllo.
Rimane, infine, la libertà del racconto. La forza redentrice del relativismo, il sollievo del ridicolo.
Narrazione /interpretazione/ esposizione: le atmosfere oniriche, le evocazioni. (Antonello
Capodici)
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